O Signore, io ancora non ci credo, ma spero che sia vero

Sentimento da fine della scuola: contare i giorni che mancano ad un evento sperato e vissuto come lontano per molto tempo, ma che ora si presenta così terribilmente vicino.
Tirare il freno a mano per non mettere la tua vita in una scatola troppo presto, per evitare di vivere in una valigia per un mese. Non sembra vero, e non è ancora detto che lo sarà sul serio, ma quanto è bello potersi dire, la mattina, “un altro giorno è passato che mi separava da te”.
E penso a cosa ho raccolto, a cosa ho seminato e sto aspettando, a cosa vorrei ancora seminare e raccogliere.
Per non parlare di tutto quello che vorrei ritrovare e non ritroverò, e a tutto quello che non trovavo e che ritroverò. La lista è lunga.

Il cuore è sparso per il mondo, con gli amici e le persone con cui ho camminato per questa strada tortuosa e in salita. Forse fra poco potrà ritrovare i pezzi che aveva lasciato più di 5 anni fa.

La nostalgia dell’odore di tiglio a giugno, della nebbia di novembre, della neve di gennaio, del Padre Nostro in lingua amica, dello spritz a due euro, degli amici del “ci troviamo al piazzale e poi vediamo” cresciuti e maturati da riscoprire e riabbracciare. Dall’altra parte, il sentimento di estraneità al proprio Paese e di comunione con il Mondo, la voglia di seminare i semi esotici raccolti altrove, sperando possano dare i frutti che mancano alla mia terra.


O Signore, io ancora non ci credo, ma spero che sia vero!

Mec du métro

A te, giovane du métro. A te, che sembri perso in un mare da cui non riesci più ad uscire.

Quante volte mi sei passato accanto, chiedendo qualche spicciolo per mangiare. Mai mi hai guardata in faccia per rispetto, per paura, per noia o per disinteresse, questo non lo so.  Quando sentivo la tua voce alle mie spalle, capivo che anche quel giorno ti avrei incontrato. E con la vista delle tua scarpe da ginnastica logore, un tempo sogno di un’ultima moda desiderata, si scatenava in me una sensazione di disagio.

Non prenderla male, caro ragazzo du métro. Il disagio non era causato dalla tua persona, ma dalla tua condizione ai miei occhi così indesiderabile. Qual era il vecchio guinzaglio da cui volevi scappare? Un insuccesso a scuola, una batosta d’amore, un rapporto disastrato con la famiglia, l’assenza di famiglia, la noia, l’emozione della trasgressione di regole sociali troppo rigide, la voglia di provare, la disoccupazione, le circostanze avverse? Cosa può averti spinto così lontano da ciò per cui la nostra società ci istruisce essere la Via? Me lo sono sempre chiesta e quando formulavo questa domanda nella mia testa, mi sentivo immediatamente in colpa per averla formulata. Quale diritto avevo di mettere in discussione il tuo modo di vivere, pensando che non andasse bene? Hai ragione. Non avevo nessun diritto di farlo.

Qual era il nuovo guinzaglio con cui ti stavi strozzando? Non lo so, mi sembrava molto corto e molto pericoloso. Vedere, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, le tue scarpe disfarsi, i tuoi denti sparire marciti dalla tua bocca ancora giovane, le tue mani diventare nere di sporco e chissà cos’altro mi urtava. Sì, mi urtava.

Ragazzo du métro, perché investire la propria vita, le proprie energie, per entrare in un gorgo dal quale si esce spesso troppo tardi in modo brutale? Perché faticare come un matto per racimolare qualche monetina da investire per bruciarti i sensi e il corpo, per rimanere in alto mare?

Mi ritrovavo spesso a pensare a tuoi genitori: dov’erano, cosa facevano, ti volevano bene?

Quanto ti sarebbe costato dirigere il timone verso quell’isola chiamata casa? Forse quell’atollo per te non esisteva più, spazzato via dal tuo mare in tempesta, forse troppo lontano per essere ritrovato, forse contrario ad un tuo ritorno. Sognavo per te che una mattina ti saresti svegliato e avresti voluto sentire il profumo del caffè di casa, la voce della tua mamma che ti chiamava per fare colazione, l’odore dei panni stesi e il ronzio della radio. Le piccole cose rendono le persone serene.

Grazie ragazzo du métro, pensando al tuo atollo remoto, rivivevo ad occhi aperti le sensazioni legate al mio. Lasciato qualche anno prima per cercare fortuna altrove, lontano qualche chilometro, ma sempre abbastanza vicino da scaldarmi nei momenti di difficoltà. Isola stretta quando vissuta, desiderata quando lontana. Mi sentivo fortunata, indebitamente fortunata, per aver ricevuto in dono le persone che mi hanno cresciuta, quelle che sono cresciute con me e quelle con cui invecchierò. Ragazzo du metro, io non ho meriti per questo.

Caro ragazzo du métro, con nessun diritto per farlo, ti vorrei dire che vali di più delle notti passate incosciente dentro ad un sacco a pelo logoro. Vali di più di quello che i viaggiatori du métro pensano di te passandoti accanto. Vali di più di chi pensa che non potrai cambiare. Vali perché sei figlio, fratello, padre, amico fidato, confidente di qualcuno. Sì, lo so, spesso quelle stesse persone ti feriscono a morte, ma pensa a tutte le altre per cui conti qualcosa, o molto.

Ragazzo du métro, non ci vedremo più. La mia barchetta è salpata per un altro lido e spero che anche la tua si dirigerà altrove, dove le acque sono calme e il sole clemente. Riprendi il timone.

Buona rotta.

Il cinismo

Un giorno la lucertolina Lina decise di uscire dalla fessura dove era cresciuta nei primi giorni di vita.

Scoprì così la sensazione piacevole del calore dei primi raggi di sole mattutini, l’odore della rugiada che evapora al calore di questi e la difficoltà di arrampicarsi su muri dritti e lisci.

Lina adorava cimentarsi nell’arrampicata, era sempre a correre su e giù dai muri, non si fermava mai. Delle volte rimaneva sulla sommità di un muro di cinta e, felice di essere arrivata così in alto, guardava gli altri animali passare sotto di lei. Quando era lì, nulla le faceva paura: potevano passare un cane, un gatto, un essere umano, ma lei rimaneva ferma sapendo di essere al sicuro.

Un giorno d’estate, finché si gustava la calda ombra del mezzogiorno, una lucertola più vecchia le si accostò. Lina prese paura. Questa lucertola era senza coda.

Non aveva mai visto uno scempio simile, quindi con l’ingenuità del giovane chiese il perché di quello stato alla sua compare.

<<Mi stavo arrampicando, quando un gatto ha spiccato un balzo e mi ha acciuffata. Per fortuna non mi ha mangiata tutta. Però la mia coda si è staccata!>>

Finché erano intente a raccontarsi, arrivò di soppiatto un gatto, che spiccò un balzo e quasi arrivo ad agguantare entrambe le lucertole.

Lina e la sua nuova amica iniziarono a correre a perdi fiato per mettersi in salvo. Poco più avanti c’era un muro alto, lì sopra sarebbero state in salvo.

Lina, senza guardarsi indietro, presa dal panico, salì sul muro e iniziò ad arrampicarsi velocemente, anche se era ormai stanca. Arrivò in cima e, senza voltarsi, iniziò a tirare un sospiro di sollievo. Era felice di aver compiuto quest’impresa con la sua nuova amica.

Si voltò gongolante al pensiero dell’impresa, eccitata dal pericolo appena scampato. <<Ma dov’è?>>, pensò Lina. Sul muro non c’era nessuno oltre a lei, il gatto si era fermato molto più in là, della nuova amica nessuna traccia.

<<La vecchiaia gioca brutti scherzi>>, concluse secca Lina fra sé e sé. E continuò a godere dei raggi caldi del sole, senza curarsi troppo di ciò che era appena accaduto.

Andante con brio, arrivante senza

Un giorno Ranocchio si gira, e vede sconsolato che, nonostante abbia saltellato tanto, non è arrivato da nessuna parte.
Per sentirsi più leggero confida al suo amico Riccio questo suo sentimento.

“Ma com’è possibile arrivare da nessuna parte?”, gli risponde Riccio, “Se tu sei, allora sei da qualche parte, per forza. Dove pensi? Dove sogni? Dove parli? Ovvio, da qualche parte!
Il tuo problema, Ranocchio, è semplicemente il valore che dai alle parti. Le parti possono essere inospitali, ma sono. Allora non dire di non aver raggiunto nulla, ma di’ piuttosto di aver raggiunto qualcosa che non ti piace. E riprendi il tuo salterrale curioso, sicuro di arrivare da qualche parte, che prima o poi ti soddisferà“

Insolubile

Stamattina ho lasciato i miei cuccioli nella bambagia morbida e umida della notte e ho deciso di andare in università.

Questo tiepido sole primaverile è l’ideale per uscire all’aria aperta, in una mattinata come questa si possono vedere le montagne, ma solo se si riesce ad andare abbastanza in alto per superare la linea spessa dei palazzi di periferia.

Nelle prime ore del mattino, la via per raggiungere la facoltà di matematica non è molto chiassosa, né eccessivamente caotica. Sono certo che le aule stiano iniziando a rischiararsi della limpida luce, e ad aprire i loro ventri di vetro per essere inondate dell’ancora umile brezza.

I venti minuti che devo percorrere passano velocemente nell’attenta osservazione di tutto ciò che avviene sotto i miei occhi curiosi: semafori, biciclette e pedoni, macchine e autobus. Elementi quotidiani di una città che si muovono intorpiditi nel sonno della prima mattina, e silenziosi per la voce ancora addormentata.

Lo studio non è un mio interesse o, meglio, solo lo studio delle persone lo è: i movimenti, le situazioni, i colori, i suoni e gli odori. E l’università per questo mi piace tantissimo. È come un formicaio: niente è mai nello stesso posto, ma tutto scorre immutabile, segno di un’impossibile staticità. Le formiche operaie muoiono, si perdono, si spostano, non sono mai le stesse, e nonostante questo la vita del formicaio, di tutti i formicai, trascorre uguale da sempre.

Appena arrivato, sbircio nella finestra dell’atrio. Persone, zaini, computer, merendine, cellulari. C’è davvero di tutto qui, troppa confusione per i miei gusti: non sono a mio agio con le persone, non so mai se fidarmi di loro, o se scappare via nel timore mi facciano del male. Nella vita ho capito presto che più si è piccoli, più si è vessati, e purtroppo la piccolezza non è quella del corpo, ma è quella dello spirito.

Mi sposto velocemente verso l’umido e ammuffito seminterrato; lì solitamente non c’è molto traffico umano. Ci sono, infatti, solo i vecchi bagni e una macchinetta del caffé obsoleta.

Questa è stata dimenticata dai più, viene utilizzata solo dai secchioni, che non vogliono perdere il loro tempo prezioso per percorrere i due piani che separano l’aula studio dalla nuova e fantascientifica macchinetta, e dai pigri che, di fare delle scale per un caffé, non ne hanno proprio voglia. Ho notato che spesso, però, le due categorie si equivalgono.

Sono appostato nello spazio migliore, le finestrelle basse sono ricoperte di una carta adesiva che non permetterebbe di vedere all’interno, se qualcuno non si fosse preso la briga di staccarne un angolino, giusto davanti alle scale e sopra la macchinetta del caffé.

Ecco, sta arrivando una ragazza. Ha proprio la faccia assonnata di chi la sera prima ha puntato troppo sulla propria prestanza fisica, facendo chissà cosa. Forse è uscita con il fidanzato, hanno guardato le stelle godendosi la prima sera primaverile, o forse ha trovato qualcuno con cui condividere una fugace notte d’amore, o magari ha semplicemente studiato l’ultimo testo per l’esame di oggi.

Ma qualsiasi cosa abbia fatto ieri, ora si muove lenta e non si accorge di nulla attorno a lei, l’unica cosa che agogna è un caffé, nella speranza possa risollevare la sua giornata e le sue occhiaie.

Arriva alla macchinetta, cerca nelle tasche delle monetine disperse tra forcine e pezzettini di carta, dimenticati in quei meandri da troppo tempo.

Finalmente le ha trovate. Con dei movimenti lenti della mano le infila nella fessura, una dopo l’altra, quasi stesse sgranando un rosario. Schiaccia un tasto: caffé doppio. Rimane ferma a fissare un punto indistinto della macchina, si china e preleva la sua sveglia liquida, si gira e, con la flemma con cui è arrivata, risale le scale e sparisce alla mia vista.

Il primo evento di oggi si è concluso in fretta, e in lontananza non si vede nessun altro in arrivo. Se anche mi guardo intorno, non c’è nulla da osservare, né sul marciapiede di fronte, né sulle scale antincendio che danno su questo cortile; non c’è nulla di umano da osservare, perché gli alberi stanno fiorendo, i boccioli sono già usciti dai rami e stanno per schiudersi.

Mi piace la primavera, è tempo di rinascita, di novità ricorrenti.

Tonf!

Un colpo sordo attira la mia attenzione, e mi distrae dai pensieri felici che mi hanno fatto volare ad un metro da terra.

Mi volto di scatto verso la finestra. Ai piedi alla macchinetta è comparso un telefono, deve essere caduto a qualcuno lungo la tromba delle scale e, dopo qualche rimbalzo, è finito proprio qui. Un ragazzino magro e abbronzato scende i gradini a due a due, si ferma e raccoglie delicatamente, con aria sconsolata, tutti i pezzi del telefono. Lo rimette in sesto e prova ad accenderlo, niente, toglie e rimette la batteria, niente, lo fissa per provare la potenza del suo pensiero sugli apparecchi elettronici, niente.

Mette in tasca i resti di quello che, fino a poco prima, era stato un oggetto utile, e per consolarsi prende un caffé: macchiato con cioccolato.

Ora che ha il suo bicchiere di plastica in mano sorride e beve, e io sono certo che abbia appena ripensato all’accaduto, ritenendolo un evento divertente. Di sicuro, pensare ad un cellulare che guizza lungo delle scale, quasi fosse un pesce in cerca di libertà, che rimbalza diverse volte lungo gli ostacoli come una pera matura che cade dal ramo più alto, fa decisamente ridere.

Si volta e riprende la via delle scale, cercando con gli occhi qualche amico a cui poter raccontare il primo episodio spassoso della giornata.

Ecco che deve aver incontrato qualcuno, non riesco a vederne niente se non un paio di scarpe da ginnastica ferme sul quarto gradino. Posso intuire che stiano ridendo perché alle mie orecchie giungono ovattati dei singhiozzi divertiti.

Il proprietario delle scarpe, congedatosi dall’amico, ha ripreso a scendere le scale. Rimango in attesa di veder comparire il suo volto, ma quando arriva la fine delle gambe? È un ragazzone alto alto, ma proprio alto alto.

Porta dei jeans e una polo un po’ sgualcita sull’orlo inferiore. I suoi occhi sono chiari, velati da occhiali leggeri che poggiano sul naso dritto come un fuso. Ha un’espressione convinta, che sembra però celare un’amarezza ormai conosciuta, tiene avidamente in mano il cellulare, quasi fosse il suo unico mezzo di attaccamento alla vita.

Arriva alla macchinetta e prende un caffé macchiato. Lo preleva e, senza neppure mescolarlo lo trangugia, ignaro del suo calore. Inserisce altre monete e seleziona un caffé liscio, lo prende e risale le scale.

Lo seguo, incuriosito dalla sua espressione e dai suoi modi. In tanto tempo che osservo le persone prendere il caffé, non avevo mai visto nessuno berlo senza neanche guardare nella tazzina per compiacersi del suo contenuto.

Il ragazzone si è seduto su una delle panca dell’atrio, guarda il bicchiere ancora fumante e inizia una telefonata.

“Ciao zia, è da un po’ che non ci vediamo, lo so. Non preoccuparti, sto bene, per la laurea è tutto pronto, presentazione fatta, tesi stampata. Venerdì, che avrò finito, ti accompagno a fare la spesa. Ciao ciao.”

Quindi si sta per laureare. Che bravo, mi ha dato subito l’idea di essere un ragazzo responsabile, ben piantato sulle spalle.

Appoggia il telefono sulla panca e mescola il caffé, assorto in qualche forte pensiero. È in questo luogo, in questo momento, ma sembra essere in nessun luogo, in nessun momento preciso. Sta lì, tenendo la testa china, a fissare i rivoli di vapore che escono dal suo caffé.

Un’altra telefonata.

“Ciao mamma. Scusa se sono scappato via di corsa stamattina, ma volevo essere sicuro di avere tutto pronto per giovedì. Ora sono molto più sereno, scusami se non riesco a stare tranquillo in queste situazioni, ma ho sempre paura di non essere all’altezza. Ci vediamo per cena, torno alle 18.00.”

Trangugia il caffé come se la telefonata con la madre lo abbia riempito di nuova consapevolezza, ma il suo sguardo, ora, è convintamente assente. L’amarezza precedente non c’è più, e la convinzione nell’atto è aumentata.

Si alza di scatto, scende le scale. Un altro caffé?

Scendo anch’io nel seminterrato, voglio controllare che magari non prenda una cioccolata. Invece inserisce le monete, e seleziona un altro caffé, al ginseng.

Sale le scale, arriva al piano terra, con il terzo bicchiere fra le mani, ma non si ferma, prosegue. Incuriosito lo pedino dall’esterno, seguendo il percorso chiaramente tracciato dalle scale antincendio del cortiletto interno: primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo piano.

Qui, sul pianerottolo dell’ultimo piano, non c’è quasi nessuno, solo due ragazzi che discutono, davanti ad un computer, sulla soluzione di un problema.

Il ragazzone li saluta senza farci caso e si mette a sedere su una sedia mezza rotta, si toglie lo zaino e lo appoggia con delicatezza a terra, estrae il cellulare dalla tasca e invia un sms. Non riesco a leggerne il testo, ma vedo una lacrima fugace fare capolino dai suoi occhi, lacrima lasciata però inespressa.

Si rimette il cellulare in tasca e a testa alta si avvicina alle scale antincendio dove sono appostato per non farmi vedere.

Beve l’ultimo sorso di caffé, appoggia il bicchiere a terra, apre la porta antipanico, esce con tranquillità e si siede sul parapetto.

Volo via per paura di essere calpestato, per oggi è meglio tornare al mio nido. Ma prima di riprendere la strada di casa, mi volto ancora una volta. Anche il ragazzone è volato via per paura.

Congiunturazioni

C’era una volta una principessa che viveva in un bellissimo castello. Passava le sue giornate pettinando i suoi lunghi capelli biondi, aspettando l’arrivo del suo principe azzurro: “Devo aspettare le giuste congiunture astrali”.

Molti ragazzi si erano fatti avanti in molti anni. Alla principessa non andavano mai bene, troppo alti, troppo bassi, troppo belli, troppo brutti. Continuava a rifiutare tutti i bei giovanotti che si facevano avanti per ricevere la sua mano: la luna era fuori allineamento, Saturno era troppo lontano dalla Terra.

La principessa, anno dopo anno, continuava a pettinare i suoi lunghi capelli biondi che iniziarono a diventare grigi. La sua bellezza non diminuiva, molti uomini adulti si facevano avanti sperando di essere il suo principe azzuro. Lei li rifiutava sempre: i satelliti di Giove non si vedevano a dovere, Urano era troppo scuro.

Passò molto tempo, lo splendore della principessa era appassito. Nessuno era intenzionato a chiederla in sposa.

La principessa morì aspettando le congiunture astrali perfette.

La tazza

Poco tempo fa, in una cittadina normale, di un paese normale, viveva un bambino come tanti. Il suo nome era Luigi.

Luigi adorava fare colazione, tutte le mattine si svegliava pieno di buonumore, scendeva le scale, arrivava in cucina, e si preparava la colazione: una fetta di pane, un po’ di marmellata, e tanto tanto latte al cioccolato. Ma questo latte al cioccolato Luigi non lo beveva in una tazza qualsiasi, lo beveva nella sua tazza preferita: blu a pois gialli. Le aveva dato anche un nome: Gialletta.

Gialletta aveva per Luigi un valore particolare, e anche quando andava in vacanza la portava con sé, altrimenti il latte non avrebbe saputo l’abituale sapore. Quella era la sua unica tazza.

Luigi cresceva forte e robusto, finì le elementari e iniziò ad andare alle medie, poi finì anche quelle ed arrivò alle superiori. La mattina era sempre contento di fare colazione, e tutti i giorni Gialletta lo aspettava pulita nella credenza, bella come fosse il primo giorno.

Luigi in seconda superiore andò in vacanza, e si dimenticò a casa la sua tazza. Subito fu un trauma, Luigi si sforzava di fare colazione nelle anonime tazze bianche da albergo, dove neppure si vede il livello del latte da quanto sono pallide e malate. Proseguì in questo tentativo per qualche giorno, fino a quando cioè, passeggiando per strada, non vide dentro un negozio, una tazza verde a pois rossi. Entrò e la comprò.

Quelle vacanze assunsero una nuova luce, fare colazione nella sua nuova e sgargiante tazza non aveva paragoni, mica come quelle tazze palliducce e quella vecchia tazza, dai colori fuori moda, di Gialletta. Tornato dalle vacanze Luigi sistemò, in un ripiano nascosto della credenza, la sua vecchia compagna di colazioni.

Passò quasi un anno, nel quale il nostro ragazzone si era dimenticato di tutti i momenti in cui Gialletta lo aveva accompagnato: gli esami delle elementari, quelli delle medie, le prime cotte adolescenziali, l’arrivo del cucciolo Spotty e la gamba rotta. In questo anno esisteva solo pois rossi, vivace e alla moda, comoda e robusta. Una mattina però Luigi la prese in mano, la appoggiò con delicatezza sul tavolo, ma questa andò in mille pezzi, frantumata come un pacchetto di biscotti sotto le scarpe, sbriciolata in pezzi piccoli quanto la sabbia dei Caraibi.

Luigi ci rimase male dapprima ma, dopo pochi secondi di meditazione, si ricordò di Gialletta; in fondo, in questo momento, poteva ancora fare al caso suo. Si arrampicò sulla credenza per arrivare al ripiano fuori mano in cui l’aveva nascosta. Allungò il braccio, ma non trovò nulla; provò nel ripiano più in là, ma non c’era; cercò ovunque, ma non c’era.

In quel momento Luigi si ricordò di cosa aveva vissuto con quella tazza, quanti momenti felici o difficili o tristi, ma tutti momenti importanti. E ora Gialletta non c’era più, persa in un armadio per una tazza sconosciuta.

La città violentata

Ti svegli la mattina e vedi l’acqua che continua a scendere, sono ormai tre giorni che piove.
Il vento è caldo, nonostante sia ormai novembre, e la neve caduta abbondante sulle montagne si sta sciogliendo.

A pranzo continua a piovere. Inizi a sentire le sirene dei Vigili del fuoco, partono dalla vicina caserma, per liberare sottopassi dall’acqua, per mettere in sicurezza strade, per iniziare a sfollare le persone.

Nel pomeriggio ti affacci alla finestra per fumare una sigaretta. Dove prima c’erano la strada di casa, le aiuole con le panchine, le macchine, ora c’è una distesa di acqua marrone che ha sommerso tutto, unici ormeggi visibili sono rimasti i cartelli stradali.

E allora inizi a pensare alla tua città, a quello che potrebbe succederle, a quello che sta già succedendo a te e a molti altri toui concittadini, ai quali non hai magari mai parlato, ai quali l’altro ieri hai suonato il campanello imbestialito perché avevano parcheggiato la macchina nel tuo posto riservato.
Ma adesso pensi a loro e a tutti quelli che stanno perdendo dei ricordi, la casa, la macchina.

Ma non è la perdita di cose materiali che ti fa scendere una lacrima, è la sensazione che il nido nel quale sei sempre cresciuto in realtà sia fragile.
Ed è fragile perché, nonostante tu non te ne sia mai accorto, è costruito su una rete di fiumi e canali. Sei ponti e due fiumi devi passare per arrivare in centro città, ma non ci avevi mai fatto caso prima di adesso.

Con l’aiuto di tutti, vecchi e giovani, italiani e stranieri, bianchi e neri si ripulisce dal fango la città, si sistemano le strade, si svuotano le cantine, si ricostruiscono le case.
Si guardano le foto della tragedia sperando che ormai sia lontana, e si riconoscono i luoghi della vita immersi nel fango, il centro cittadino diventato una palude nella quale si sono abbandonate le biciclette per far posto ai gommoni, persone sempre viste e mai conosciute che temono per loro.
La città è stata ormai ripulita dal fango.

Il fango che ha sporcato la sicurezza di tutti, quello non si toglie.
Ora, a distanza di mesi, ogni volta che piove intensamente, accendi la televisione per captare se sta succedendo di nuovo, guardi il sito del comune per comprendere se c’è l’allerta esondazione. E anche senza trovare queste informazioni, scendi in garage a prendere la pala e telefoni agli amici per capire se dovrai vedere ancora una volta la tua città violentata dall’acqua.

Nebbia

Lelio non sapeva che strada scegliere, non si ricordava più come fosse la cartina che aveva guardato la mattina, prima di partire.

C’era o non c’era questo bivio? Se avessi guardato più attentamente quella cartina, ora lo saprei!

Il bivio che Lelio si trovava di fronte non aveva alcuna indicazione e, perdi più, la nebbia copriva tutto. Bianca e fredda uniformava il paesaggio, quasi fosse una profondità marina. Ormai era pomeriggio inoltrato, stava iniziando a diventare buio: le cose che il nostro pellegrino riusciva a distingere, in quel niente, diminuivano.

Questa nebbia mi sta bagnando il soprabito, e pizzica pure il naso, e copre tutto, ed è fredda. Non si vede molto, ma se provassi a strizzare gli occhi? Se strizzassi gli occhi… uguale a prima. Pazienza, vano tentativo, vorrà dire che sceglierò la strada in base al poco che riesco a vedere.
Allora. A sinistra ci sono degli alberi, ora sono un po’ spogli, ma in primavera devono essere il rifugio perfetto dalla calura, con le loro foglie vive che si muovono al vento, proiettando un’ombra salvifica a terra. Il sentiero sembra battuto meglio, farò meno fatica, e magari troverò anche un buon fattore pronto ad accogliermi per una notte.
A destra ci sono solo dei cespugli, o forse sono dei rovi, non riesco a capire bene. Certo è che non promettono molto di buono, se non delle rare more selvatiche, in un periodo imprecisato dell’anno, che certo non è questo. Come farei a camminare in mezzo a tutte quelle spine?
Meglio andare a sinistra, la strada sarà di sicuro migliore.

Lelio si incamminò, sicuro della sua scelta, lungo la via di sinistra.
Camminò e camminò, ma la strada iniziò a farsi difficile: stretta, invasa dalle sterpaglie, che resero impreciso l’incedere di un passo ormai stanco.
Lelio continuò, sicuro della scelta.

Se questa via, che era la migliore fra le due, è così, figuriamoci l’altra. Tieni duro Lelio, tra poco arriverai e, se non arriverai, potrai almeno chiedere ospitalità, di certo ci sarà una contrada fra non molto.

Camminò ancora, nella nebbia sempre più fitta. Ora Lelio vedeva il movimento pesante dei propri piedi muovere in moti circolari l’aria bianca e densa. La luce fioca illuminava un breve cono di farina avanti a sé.

Camminò e camminò fino a notte inoltrata. Il suo stomaco brontolava, vuoto da troppo tempo. I suoi piedi bollivano, in viaggio da troppe ore. Le ciglia umide, protezione degli occhi ormai assonnati. Non poteva fermarsi, non aveva nulla per ripararsi, in una notte d’inverno, dalla nebbia e dal freddo. Continuò a camminare.

Chissà mai se arriverò da qualche parte. Qui mi sembra di camminare senza andare avanti, sempre i soliti scarponi, sempre le solite erbacce, sempre il solito sentiero sotto i piedi, sempre la solita lucina e sempre il solito bianco, più bianco e ancora bianco.

Appena pensò questo sentì il latrare di un cane. Era salvo, un cane poteva decidere di uscire con quel tempo solo se vicino avesse avuto una calda cuccia ad aspettarlo.
Lelio affrettò il passo, arrivò presto in una contrada. Doveva essere ormai tardi perché le luci erano spente, solo un lumicino si intravvedeva dalla finestrella della casetta accanto alla stalla.

Proverò a bussare, forse lì c’è qualcuno sveglio.

“Salve, mi scusi, credo di essermi perso e non ho con me nulla. Come? Oh, la ringrazio, sarebbe splendido.”

Lelio era appena stato accolto da un vecchio ingobbito e grinzoso, i cui occhi però brillavano scuri come bottoni, segno evidente di una vecchiaia solo corporea.
Un piatto di minestra, un bicchiere di vino rosso e molte chiacchiere.

Prima di andare a letto il vecchio chiese a Lelio: “Come mai hai scelto la strada più difficile per salire?”

“Strada più difficile? Ero certo che fosse la più semplice: quegli alberi sicuri, anche se spogli, e la larghezza del sentiero. Pareva molto più tranquilla dell’altra, piena di rovi che invadevano la via.”

“Ricorda che la nebbia nasconde la vertià delle cose.”

Gli occhiali

Girando per la sua città, Marcello vedeva un sacco di cose che non gli piacevano: c’erano uomini viola che incutevano paura, uomini celesti e piccolini che erano velocissimi a rubare ai passanti, per non parlare degli uomini verdi famosissimi spacciatori di droga.

Marcello era un ragazzino di 13 anni e, data la sua età, iniziava a scorrazzare in bicicletta lungo stradelle e vicoli che non aveva mai percorso prima, con mamma e papà.
Era per questo che aveva cominciato ad incontrare di persona questi strani personaggi. Quando ne vedeva uno, iniziava a pedalare il più velocemente possibile per scappare.
Dopo un po’ di mesi però, prima di scappare via, stava ad osservarli, coprendosi il viso con la sciarpa ed il berretto, in modo che fossero visibili solamente gli occhi, per non essere riconosciuto da nessuno.
Finché li osservava, scrutandoli dalla testa ai piedi, pensava ad un mucchio di cose cattive, come: “Questo sporco uomo viola non mi fa più paura, anche se è diverso”, oppure “Gli uomini celesti sono delle pulci che succhiano il nostro sangue”. Aveva sentito talmente tante storie sul loro conto, che conosceva le abitudini delinquenti alla perfezione.

I mesi passavano così, tra una biciclettata e l’altra, e l’odio di Marcello diventava sempre più grande. Un giorno però, accadde una cosa imprevista: Marcello cadde dalla bicicletta, in uno dei vicoli più bui e stretti, la bici si distrusse e lui si fece anche molto male.
Finché era a terra dolorante, vide un paio di piedi avvicinarsi a lui, non aveva il coraggio di alzare la testa per capire a chi appartenessero. Allora frugò nella tasca per cercare un’arma con la quale difendersi, ma non trovò altro che una merendina spiaccicata.

I piedi erano sempre pi vicini, e il loro proprietario si stava piegando su di lui.
Voleva ucciderlo? Rapinarlo? Picchiarlo?
Che paura aveva Marcello, non sapeva proprio che fare, anche perché, cadendo aveva perso gli occhiali.

Un attimo, ma perché Marcello riusciva a vedere se non aveva più gli occhiali?

Bella domanda. Anche lui, nonostante il panico si stesse diffondendo in tutto il suo corpo, si domandò proprio questo.
Iniziò a pensare a come vedeva, o non vedeva, di solito senza occhiali. Ma non gli venne in mente niente, infatti, non se li era proprio mai tolti. I suoi genitori non glielo permettevano, perché gli si sarebbero rovinati gli occhi.

Preso dalla curiosità, si fece forza ed alzò la testa verso la figura che, ormai, era china su di lui e, senza pensarci, disse velocemente:

«Ma tu chi sei? Mi vuoi uccidere? Prendi tutto quello che vuoi da me, ma non farmi del male, in tasca ho una merendina squisita.»

«Ucciderti? Scipparti? Ma no! Voglio solo capire se ti sei fatto male.»

Marcello si era dimenticato, in quegli istanti, il motivo del suo essere per terra, quindi rispose:

«Oh, grazie. No, no, non mi sono fatto molto male, ma la mia bicicletta non funzionerà più!»

«Non preoccuparti, se vuoi, nel mio garage ho tutto il necessario per ripararla.»

«Ma la mamma non vuole che io dia retta agli sconosciuti. Per di più in un quartiere del genere. Sai, ci sono gli uomini celesti che sono dei delinquenti, per non parlare di quelli verdi.»

«Uomini verdi? Uomini celesti? Ahahahah, sì sì, ho già sentito questa cosa. L’ho sentita quando sono sceso in città, poche settimane fa. Una signora mi ha dato del celeste, guardandomi!»

«Ma perché lo ha detto a te? Tu non sei mica celeste!»

«Già, ma secondo me questa signora non ci vedeva tanto bene, portava degli strani occhiali.»

La conversazione si esaurì così, lo sconosciuto aiutò Marcello a rialzarsi, raccolse la bici da terra e poi vide gli occhiali rotti.

«Sai, gli occhiali di quella signora, erano proprio come questi!»