Insolubile

Stamattina ho lasciato i miei cuccioli nella bambagia morbida e umida della notte e ho deciso di andare in università.

Questo tiepido sole primaverile è l’ideale per uscire all’aria aperta, in una mattinata come questa si possono vedere le montagne, ma solo se si riesce ad andare abbastanza in alto per superare la linea spessa dei palazzi di periferia.

Nelle prime ore del mattino, la via per raggiungere la facoltà di matematica non è molto chiassosa, né eccessivamente caotica. Sono certo che le aule stiano iniziando a rischiararsi della limpida luce, e ad aprire i loro ventri di vetro per essere inondate dell’ancora umile brezza.

I venti minuti che devo percorrere passano velocemente nell’attenta osservazione di tutto ciò che avviene sotto i miei occhi curiosi: semafori, biciclette e pedoni, macchine e autobus. Elementi quotidiani di una città che si muovono intorpiditi nel sonno della prima mattina, e silenziosi per la voce ancora addormentata.

Lo studio non è un mio interesse o, meglio, solo lo studio delle persone lo è: i movimenti, le situazioni, i colori, i suoni e gli odori. E l’università per questo mi piace tantissimo. È come un formicaio: niente è mai nello stesso posto, ma tutto scorre immutabile, segno di un’impossibile staticità. Le formiche operaie muoiono, si perdono, si spostano, non sono mai le stesse, e nonostante questo la vita del formicaio, di tutti i formicai, trascorre uguale da sempre.

Appena arrivato, sbircio nella finestra dell’atrio. Persone, zaini, computer, merendine, cellulari. C’è davvero di tutto qui, troppa confusione per i miei gusti: non sono a mio agio con le persone, non so mai se fidarmi di loro, o se scappare via nel timore mi facciano del male. Nella vita ho capito presto che più si è piccoli, più si è vessati, e purtroppo la piccolezza non è quella del corpo, ma è quella dello spirito.

Mi sposto velocemente verso l’umido e ammuffito seminterrato; lì solitamente non c’è molto traffico umano. Ci sono, infatti, solo i vecchi bagni e una macchinetta del caffé obsoleta.

Questa è stata dimenticata dai più, viene utilizzata solo dai secchioni, che non vogliono perdere il loro tempo prezioso per percorrere i due piani che separano l’aula studio dalla nuova e fantascientifica macchinetta, e dai pigri che, di fare delle scale per un caffé, non ne hanno proprio voglia. Ho notato che spesso, però, le due categorie si equivalgono.

Sono appostato nello spazio migliore, le finestrelle basse sono ricoperte di una carta adesiva che non permetterebbe di vedere all’interno, se qualcuno non si fosse preso la briga di staccarne un angolino, giusto davanti alle scale e sopra la macchinetta del caffé.

Ecco, sta arrivando una ragazza. Ha proprio la faccia assonnata di chi la sera prima ha puntato troppo sulla propria prestanza fisica, facendo chissà cosa. Forse è uscita con il fidanzato, hanno guardato le stelle godendosi la prima sera primaverile, o forse ha trovato qualcuno con cui condividere una fugace notte d’amore, o magari ha semplicemente studiato l’ultimo testo per l’esame di oggi.

Ma qualsiasi cosa abbia fatto ieri, ora si muove lenta e non si accorge di nulla attorno a lei, l’unica cosa che agogna è un caffé, nella speranza possa risollevare la sua giornata e le sue occhiaie.

Arriva alla macchinetta, cerca nelle tasche delle monetine disperse tra forcine e pezzettini di carta, dimenticati in quei meandri da troppo tempo.

Finalmente le ha trovate. Con dei movimenti lenti della mano le infila nella fessura, una dopo l’altra, quasi stesse sgranando un rosario. Schiaccia un tasto: caffé doppio. Rimane ferma a fissare un punto indistinto della macchina, si china e preleva la sua sveglia liquida, si gira e, con la flemma con cui è arrivata, risale le scale e sparisce alla mia vista.

Il primo evento di oggi si è concluso in fretta, e in lontananza non si vede nessun altro in arrivo. Se anche mi guardo intorno, non c’è nulla da osservare, né sul marciapiede di fronte, né sulle scale antincendio che danno su questo cortile; non c’è nulla di umano da osservare, perché gli alberi stanno fiorendo, i boccioli sono già usciti dai rami e stanno per schiudersi.

Mi piace la primavera, è tempo di rinascita, di novità ricorrenti.

Tonf!

Un colpo sordo attira la mia attenzione, e mi distrae dai pensieri felici che mi hanno fatto volare ad un metro da terra.

Mi volto di scatto verso la finestra. Ai piedi alla macchinetta è comparso un telefono, deve essere caduto a qualcuno lungo la tromba delle scale e, dopo qualche rimbalzo, è finito proprio qui. Un ragazzino magro e abbronzato scende i gradini a due a due, si ferma e raccoglie delicatamente, con aria sconsolata, tutti i pezzi del telefono. Lo rimette in sesto e prova ad accenderlo, niente, toglie e rimette la batteria, niente, lo fissa per provare la potenza del suo pensiero sugli apparecchi elettronici, niente.

Mette in tasca i resti di quello che, fino a poco prima, era stato un oggetto utile, e per consolarsi prende un caffé: macchiato con cioccolato.

Ora che ha il suo bicchiere di plastica in mano sorride e beve, e io sono certo che abbia appena ripensato all’accaduto, ritenendolo un evento divertente. Di sicuro, pensare ad un cellulare che guizza lungo delle scale, quasi fosse un pesce in cerca di libertà, che rimbalza diverse volte lungo gli ostacoli come una pera matura che cade dal ramo più alto, fa decisamente ridere.

Si volta e riprende la via delle scale, cercando con gli occhi qualche amico a cui poter raccontare il primo episodio spassoso della giornata.

Ecco che deve aver incontrato qualcuno, non riesco a vederne niente se non un paio di scarpe da ginnastica ferme sul quarto gradino. Posso intuire che stiano ridendo perché alle mie orecchie giungono ovattati dei singhiozzi divertiti.

Il proprietario delle scarpe, congedatosi dall’amico, ha ripreso a scendere le scale. Rimango in attesa di veder comparire il suo volto, ma quando arriva la fine delle gambe? È un ragazzone alto alto, ma proprio alto alto.

Porta dei jeans e una polo un po’ sgualcita sull’orlo inferiore. I suoi occhi sono chiari, velati da occhiali leggeri che poggiano sul naso dritto come un fuso. Ha un’espressione convinta, che sembra però celare un’amarezza ormai conosciuta, tiene avidamente in mano il cellulare, quasi fosse il suo unico mezzo di attaccamento alla vita.

Arriva alla macchinetta e prende un caffé macchiato. Lo preleva e, senza neppure mescolarlo lo trangugia, ignaro del suo calore. Inserisce altre monete e seleziona un caffé liscio, lo prende e risale le scale.

Lo seguo, incuriosito dalla sua espressione e dai suoi modi. In tanto tempo che osservo le persone prendere il caffé, non avevo mai visto nessuno berlo senza neanche guardare nella tazzina per compiacersi del suo contenuto.

Il ragazzone si è seduto su una delle panca dell’atrio, guarda il bicchiere ancora fumante e inizia una telefonata.

“Ciao zia, è da un po’ che non ci vediamo, lo so. Non preoccuparti, sto bene, per la laurea è tutto pronto, presentazione fatta, tesi stampata. Venerdì, che avrò finito, ti accompagno a fare la spesa. Ciao ciao.”

Quindi si sta per laureare. Che bravo, mi ha dato subito l’idea di essere un ragazzo responsabile, ben piantato sulle spalle.

Appoggia il telefono sulla panca e mescola il caffé, assorto in qualche forte pensiero. È in questo luogo, in questo momento, ma sembra essere in nessun luogo, in nessun momento preciso. Sta lì, tenendo la testa china, a fissare i rivoli di vapore che escono dal suo caffé.

Un’altra telefonata.

“Ciao mamma. Scusa se sono scappato via di corsa stamattina, ma volevo essere sicuro di avere tutto pronto per giovedì. Ora sono molto più sereno, scusami se non riesco a stare tranquillo in queste situazioni, ma ho sempre paura di non essere all’altezza. Ci vediamo per cena, torno alle 18.00.”

Trangugia il caffé come se la telefonata con la madre lo abbia riempito di nuova consapevolezza, ma il suo sguardo, ora, è convintamente assente. L’amarezza precedente non c’è più, e la convinzione nell’atto è aumentata.

Si alza di scatto, scende le scale. Un altro caffé?

Scendo anch’io nel seminterrato, voglio controllare che magari non prenda una cioccolata. Invece inserisce le monete, e seleziona un altro caffé, al ginseng.

Sale le scale, arriva al piano terra, con il terzo bicchiere fra le mani, ma non si ferma, prosegue. Incuriosito lo pedino dall’esterno, seguendo il percorso chiaramente tracciato dalle scale antincendio del cortiletto interno: primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo piano.

Qui, sul pianerottolo dell’ultimo piano, non c’è quasi nessuno, solo due ragazzi che discutono, davanti ad un computer, sulla soluzione di un problema.

Il ragazzone li saluta senza farci caso e si mette a sedere su una sedia mezza rotta, si toglie lo zaino e lo appoggia con delicatezza a terra, estrae il cellulare dalla tasca e invia un sms. Non riesco a leggerne il testo, ma vedo una lacrima fugace fare capolino dai suoi occhi, lacrima lasciata però inespressa.

Si rimette il cellulare in tasca e a testa alta si avvicina alle scale antincendio dove sono appostato per non farmi vedere.

Beve l’ultimo sorso di caffé, appoggia il bicchiere a terra, apre la porta antipanico, esce con tranquillità e si siede sul parapetto.

Volo via per paura di essere calpestato, per oggi è meglio tornare al mio nido. Ma prima di riprendere la strada di casa, mi volto ancora una volta. Anche il ragazzone è volato via per paura.