O Signore, io ancora non ci credo, ma spero che sia vero

Sentimento da fine della scuola: contare i giorni che mancano ad un evento sperato e vissuto come lontano per molto tempo, ma che ora si presenta così terribilmente vicino.
Tirare il freno a mano per non mettere la tua vita in una scatola troppo presto, per evitare di vivere in una valigia per un mese. Non sembra vero, e non è ancora detto che lo sarà sul serio, ma quanto è bello potersi dire, la mattina, “un altro giorno è passato che mi separava da te”.
E penso a cosa ho raccolto, a cosa ho seminato e sto aspettando, a cosa vorrei ancora seminare e raccogliere.
Per non parlare di tutto quello che vorrei ritrovare e non ritroverò, e a tutto quello che non trovavo e che ritroverò. La lista è lunga.

Il cuore è sparso per il mondo, con gli amici e le persone con cui ho camminato per questa strada tortuosa e in salita. Forse fra poco potrà ritrovare i pezzi che aveva lasciato più di 5 anni fa.

La nostalgia dell’odore di tiglio a giugno, della nebbia di novembre, della neve di gennaio, del Padre Nostro in lingua amica, dello spritz a due euro, degli amici del “ci troviamo al piazzale e poi vediamo” cresciuti e maturati da riscoprire e riabbracciare. Dall’altra parte, il sentimento di estraneità al proprio Paese e di comunione con il Mondo, la voglia di seminare i semi esotici raccolti altrove, sperando possano dare i frutti che mancano alla mia terra.


O Signore, io ancora non ci credo, ma spero che sia vero!

Mec du métro

A te, giovane du métro. A te, che sembri perso in un mare da cui non riesci più ad uscire.

Quante volte mi sei passato accanto, chiedendo qualche spicciolo per mangiare. Mai mi hai guardata in faccia per rispetto, per paura, per noia o per disinteresse, questo non lo so.  Quando sentivo la tua voce alle mie spalle, capivo che anche quel giorno ti avrei incontrato. E con la vista delle tua scarpe da ginnastica logore, un tempo sogno di un’ultima moda desiderata, si scatenava in me una sensazione di disagio.

Non prenderla male, caro ragazzo du métro. Il disagio non era causato dalla tua persona, ma dalla tua condizione ai miei occhi così indesiderabile. Qual era il vecchio guinzaglio da cui volevi scappare? Un insuccesso a scuola, una batosta d’amore, un rapporto disastrato con la famiglia, l’assenza di famiglia, la noia, l’emozione della trasgressione di regole sociali troppo rigide, la voglia di provare, la disoccupazione, le circostanze avverse? Cosa può averti spinto così lontano da ciò per cui la nostra società ci istruisce essere la Via? Me lo sono sempre chiesta e quando formulavo questa domanda nella mia testa, mi sentivo immediatamente in colpa per averla formulata. Quale diritto avevo di mettere in discussione il tuo modo di vivere, pensando che non andasse bene? Hai ragione. Non avevo nessun diritto di farlo.

Qual era il nuovo guinzaglio con cui ti stavi strozzando? Non lo so, mi sembrava molto corto e molto pericoloso. Vedere, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, le tue scarpe disfarsi, i tuoi denti sparire marciti dalla tua bocca ancora giovane, le tue mani diventare nere di sporco e chissà cos’altro mi urtava. Sì, mi urtava.

Ragazzo du métro, perché investire la propria vita, le proprie energie, per entrare in un gorgo dal quale si esce spesso troppo tardi in modo brutale? Perché faticare come un matto per racimolare qualche monetina da investire per bruciarti i sensi e il corpo, per rimanere in alto mare?

Mi ritrovavo spesso a pensare a tuoi genitori: dov’erano, cosa facevano, ti volevano bene?

Quanto ti sarebbe costato dirigere il timone verso quell’isola chiamata casa? Forse quell’atollo per te non esisteva più, spazzato via dal tuo mare in tempesta, forse troppo lontano per essere ritrovato, forse contrario ad un tuo ritorno. Sognavo per te che una mattina ti saresti svegliato e avresti voluto sentire il profumo del caffè di casa, la voce della tua mamma che ti chiamava per fare colazione, l’odore dei panni stesi e il ronzio della radio. Le piccole cose rendono le persone serene.

Grazie ragazzo du métro, pensando al tuo atollo remoto, rivivevo ad occhi aperti le sensazioni legate al mio. Lasciato qualche anno prima per cercare fortuna altrove, lontano qualche chilometro, ma sempre abbastanza vicino da scaldarmi nei momenti di difficoltà. Isola stretta quando vissuta, desiderata quando lontana. Mi sentivo fortunata, indebitamente fortunata, per aver ricevuto in dono le persone che mi hanno cresciuta, quelle che sono cresciute con me e quelle con cui invecchierò. Ragazzo du metro, io non ho meriti per questo.

Caro ragazzo du métro, con nessun diritto per farlo, ti vorrei dire che vali di più delle notti passate incosciente dentro ad un sacco a pelo logoro. Vali di più di quello che i viaggiatori du métro pensano di te passandoti accanto. Vali di più di chi pensa che non potrai cambiare. Vali perché sei figlio, fratello, padre, amico fidato, confidente di qualcuno. Sì, lo so, spesso quelle stesse persone ti feriscono a morte, ma pensa a tutte le altre per cui conti qualcosa, o molto.

Ragazzo du métro, non ci vedremo più. La mia barchetta è salpata per un altro lido e spero che anche la tua si dirigerà altrove, dove le acque sono calme e il sole clemente. Riprendi il timone.

Buona rotta.

La città violentata

Ti svegli la mattina e vedi l’acqua che continua a scendere, sono ormai tre giorni che piove.
Il vento è caldo, nonostante sia ormai novembre, e la neve caduta abbondante sulle montagne si sta sciogliendo.

A pranzo continua a piovere. Inizi a sentire le sirene dei Vigili del fuoco, partono dalla vicina caserma, per liberare sottopassi dall’acqua, per mettere in sicurezza strade, per iniziare a sfollare le persone.

Nel pomeriggio ti affacci alla finestra per fumare una sigaretta. Dove prima c’erano la strada di casa, le aiuole con le panchine, le macchine, ora c’è una distesa di acqua marrone che ha sommerso tutto, unici ormeggi visibili sono rimasti i cartelli stradali.

E allora inizi a pensare alla tua città, a quello che potrebbe succederle, a quello che sta già succedendo a te e a molti altri toui concittadini, ai quali non hai magari mai parlato, ai quali l’altro ieri hai suonato il campanello imbestialito perché avevano parcheggiato la macchina nel tuo posto riservato.
Ma adesso pensi a loro e a tutti quelli che stanno perdendo dei ricordi, la casa, la macchina.

Ma non è la perdita di cose materiali che ti fa scendere una lacrima, è la sensazione che il nido nel quale sei sempre cresciuto in realtà sia fragile.
Ed è fragile perché, nonostante tu non te ne sia mai accorto, è costruito su una rete di fiumi e canali. Sei ponti e due fiumi devi passare per arrivare in centro città, ma non ci avevi mai fatto caso prima di adesso.

Con l’aiuto di tutti, vecchi e giovani, italiani e stranieri, bianchi e neri si ripulisce dal fango la città, si sistemano le strade, si svuotano le cantine, si ricostruiscono le case.
Si guardano le foto della tragedia sperando che ormai sia lontana, e si riconoscono i luoghi della vita immersi nel fango, il centro cittadino diventato una palude nella quale si sono abbandonate le biciclette per far posto ai gommoni, persone sempre viste e mai conosciute che temono per loro.
La città è stata ormai ripulita dal fango.

Il fango che ha sporcato la sicurezza di tutti, quello non si toglie.
Ora, a distanza di mesi, ogni volta che piove intensamente, accendi la televisione per captare se sta succedendo di nuovo, guardi il sito del comune per comprendere se c’è l’allerta esondazione. E anche senza trovare queste informazioni, scendi in garage a prendere la pala e telefoni agli amici per capire se dovrai vedere ancora una volta la tua città violentata dall’acqua.

La vigilessa

Molto annoiata continuo la mia giornata di lavoro negli stand allestiti per le festività natalizie nel centro storico di Vicenza. “Vuole del madorlato?”, oppure “La latta rotonda viene 9 euro.”, o anche “Ecco il suo resto, lo scontrino è nella borsina.” sono frasi abituali e ormai automatiche.
Abituale è anche l’incontro con la signora bionda, sempre lei, sempre la stessa frase ogni due ore, “Che ore adesso?”, sempre lo stesso sorriso sincero e bonario.
Inaspettata una voce fuori campo si rivolge sgarbata alla signora interrompendo lo scambio di battute: “Ha dei problemi?”.
Incredula giro lo sguardo a cercare la fonte di tanta irruenza. Una vigilessa. Solo ora la mia mente, offuscata dalla monotonia del lavoro e degli incontri, si ricorda che la signora bionda è una nomade che chiede l’elemosina in centro. Cerco subito di rincuorare la vigilessa spiegandole che la signora stava solamente chiedendo l’ora, così come ogni giorno, più volte al giorno.
Non l’avessi mai fatto. Vengo fulminata da uno sguardo glaciale e mi sento rivolgere la stessa domanda “Ha dei problemi?”. Arrossisco non capendo il male causato e raccolgo i pensieri per evitare di peggiorare il clima emotivo; “La volevo solo rincuorare del fatto che qui va tutto bene, la signora non disturba, anzi.”. La vigilessa scocciata si gira e riprende il suo giro di perlustrazione.