Mec du métro

A te, giovane du métro. A te, che sembri perso in un mare da cui non riesci più ad uscire.

Quante volte mi sei passato accanto, chiedendo qualche spicciolo per mangiare. Mai mi hai guardata in faccia per rispetto, per paura, per noia o per disinteresse, questo non lo so.  Quando sentivo la tua voce alle mie spalle, capivo che anche quel giorno ti avrei incontrato. E con la vista delle tua scarpe da ginnastica logore, un tempo sogno di un’ultima moda desiderata, si scatenava in me una sensazione di disagio.

Non prenderla male, caro ragazzo du métro. Il disagio non era causato dalla tua persona, ma dalla tua condizione ai miei occhi così indesiderabile. Qual era il vecchio guinzaglio da cui volevi scappare? Un insuccesso a scuola, una batosta d’amore, un rapporto disastrato con la famiglia, l’assenza di famiglia, la noia, l’emozione della trasgressione di regole sociali troppo rigide, la voglia di provare, la disoccupazione, le circostanze avverse? Cosa può averti spinto così lontano da ciò per cui la nostra società ci istruisce essere la Via? Me lo sono sempre chiesta e quando formulavo questa domanda nella mia testa, mi sentivo immediatamente in colpa per averla formulata. Quale diritto avevo di mettere in discussione il tuo modo di vivere, pensando che non andasse bene? Hai ragione. Non avevo nessun diritto di farlo.

Qual era il nuovo guinzaglio con cui ti stavi strozzando? Non lo so, mi sembrava molto corto e molto pericoloso. Vedere, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, le tue scarpe disfarsi, i tuoi denti sparire marciti dalla tua bocca ancora giovane, le tue mani diventare nere di sporco e chissà cos’altro mi urtava. Sì, mi urtava.

Ragazzo du métro, perché investire la propria vita, le proprie energie, per entrare in un gorgo dal quale si esce spesso troppo tardi in modo brutale? Perché faticare come un matto per racimolare qualche monetina da investire per bruciarti i sensi e il corpo, per rimanere in alto mare?

Mi ritrovavo spesso a pensare a tuoi genitori: dov’erano, cosa facevano, ti volevano bene?

Quanto ti sarebbe costato dirigere il timone verso quell’isola chiamata casa? Forse quell’atollo per te non esisteva più, spazzato via dal tuo mare in tempesta, forse troppo lontano per essere ritrovato, forse contrario ad un tuo ritorno. Sognavo per te che una mattina ti saresti svegliato e avresti voluto sentire il profumo del caffè di casa, la voce della tua mamma che ti chiamava per fare colazione, l’odore dei panni stesi e il ronzio della radio. Le piccole cose rendono le persone serene.

Grazie ragazzo du métro, pensando al tuo atollo remoto, rivivevo ad occhi aperti le sensazioni legate al mio. Lasciato qualche anno prima per cercare fortuna altrove, lontano qualche chilometro, ma sempre abbastanza vicino da scaldarmi nei momenti di difficoltà. Isola stretta quando vissuta, desiderata quando lontana. Mi sentivo fortunata, indebitamente fortunata, per aver ricevuto in dono le persone che mi hanno cresciuta, quelle che sono cresciute con me e quelle con cui invecchierò. Ragazzo du metro, io non ho meriti per questo.

Caro ragazzo du métro, con nessun diritto per farlo, ti vorrei dire che vali di più delle notti passate incosciente dentro ad un sacco a pelo logoro. Vali di più di quello che i viaggiatori du métro pensano di te passandoti accanto. Vali di più di chi pensa che non potrai cambiare. Vali perché sei figlio, fratello, padre, amico fidato, confidente di qualcuno. Sì, lo so, spesso quelle stesse persone ti feriscono a morte, ma pensa a tutte le altre per cui conti qualcosa, o molto.

Ragazzo du métro, non ci vedremo più. La mia barchetta è salpata per un altro lido e spero che anche la tua si dirigerà altrove, dove le acque sono calme e il sole clemente. Riprendi il timone.

Buona rotta.