Il cinismo

Un giorno la lucertolina Lina decise di uscire dalla fessura dove era cresciuta nei primi giorni di vita.

Scoprì così la sensazione piacevole del calore dei primi raggi di sole mattutini, l’odore della rugiada che evapora al calore di questi e la difficoltà di arrampicarsi su muri dritti e lisci.

Lina adorava cimentarsi nell’arrampicata, era sempre a correre su e giù dai muri, non si fermava mai. Delle volte rimaneva sulla sommità di un muro di cinta e, felice di essere arrivata così in alto, guardava gli altri animali passare sotto di lei. Quando era lì, nulla le faceva paura: potevano passare un cane, un gatto, un essere umano, ma lei rimaneva ferma sapendo di essere al sicuro.

Un giorno d’estate, finché si gustava la calda ombra del mezzogiorno, una lucertola più vecchia le si accostò. Lina prese paura. Questa lucertola era senza coda.

Non aveva mai visto uno scempio simile, quindi con l’ingenuità del giovane chiese il perché di quello stato alla sua compare.

<<Mi stavo arrampicando, quando un gatto ha spiccato un balzo e mi ha acciuffata. Per fortuna non mi ha mangiata tutta. Però la mia coda si è staccata!>>

Finché erano intente a raccontarsi, arrivò di soppiatto un gatto, che spiccò un balzo e quasi arrivo ad agguantare entrambe le lucertole.

Lina e la sua nuova amica iniziarono a correre a perdi fiato per mettersi in salvo. Poco più avanti c’era un muro alto, lì sopra sarebbero state in salvo.

Lina, senza guardarsi indietro, presa dal panico, salì sul muro e iniziò ad arrampicarsi velocemente, anche se era ormai stanca. Arrivò in cima e, senza voltarsi, iniziò a tirare un sospiro di sollievo. Era felice di aver compiuto quest’impresa con la sua nuova amica.

Si voltò gongolante al pensiero dell’impresa, eccitata dal pericolo appena scampato. <<Ma dov’è?>>, pensò Lina. Sul muro non c’era nessuno oltre a lei, il gatto si era fermato molto più in là, della nuova amica nessuna traccia.

<<La vecchiaia gioca brutti scherzi>>, concluse secca Lina fra sé e sé. E continuò a godere dei raggi caldi del sole, senza curarsi troppo di ciò che era appena accaduto.

Andante con brio, arrivante senza

Un giorno Ranocchio si gira, e vede sconsolato che, nonostante abbia saltellato tanto, non è arrivato da nessuna parte.
Per sentirsi più leggero confida al suo amico Riccio questo suo sentimento.

“Ma com’è possibile arrivare da nessuna parte?”, gli risponde Riccio, “Se tu sei, allora sei da qualche parte, per forza. Dove pensi? Dove sogni? Dove parli? Ovvio, da qualche parte!
Il tuo problema, Ranocchio, è semplicemente il valore che dai alle parti. Le parti possono essere inospitali, ma sono. Allora non dire di non aver raggiunto nulla, ma di’ piuttosto di aver raggiunto qualcosa che non ti piace. E riprendi il tuo salterrale curioso, sicuro di arrivare da qualche parte, che prima o poi ti soddisferà“

Insolubile

Stamattina ho lasciato i miei cuccioli nella bambagia morbida e umida della notte e ho deciso di andare in università.

Questo tiepido sole primaverile è l’ideale per uscire all’aria aperta, in una mattinata come questa si possono vedere le montagne, ma solo se si riesce ad andare abbastanza in alto per superare la linea spessa dei palazzi di periferia.

Nelle prime ore del mattino, la via per raggiungere la facoltà di matematica non è molto chiassosa, né eccessivamente caotica. Sono certo che le aule stiano iniziando a rischiararsi della limpida luce, e ad aprire i loro ventri di vetro per essere inondate dell’ancora umile brezza.

I venti minuti che devo percorrere passano velocemente nell’attenta osservazione di tutto ciò che avviene sotto i miei occhi curiosi: semafori, biciclette e pedoni, macchine e autobus. Elementi quotidiani di una città che si muovono intorpiditi nel sonno della prima mattina, e silenziosi per la voce ancora addormentata.

Lo studio non è un mio interesse o, meglio, solo lo studio delle persone lo è: i movimenti, le situazioni, i colori, i suoni e gli odori. E l’università per questo mi piace tantissimo. È come un formicaio: niente è mai nello stesso posto, ma tutto scorre immutabile, segno di un’impossibile staticità. Le formiche operaie muoiono, si perdono, si spostano, non sono mai le stesse, e nonostante questo la vita del formicaio, di tutti i formicai, trascorre uguale da sempre.

Appena arrivato, sbircio nella finestra dell’atrio. Persone, zaini, computer, merendine, cellulari. C’è davvero di tutto qui, troppa confusione per i miei gusti: non sono a mio agio con le persone, non so mai se fidarmi di loro, o se scappare via nel timore mi facciano del male. Nella vita ho capito presto che più si è piccoli, più si è vessati, e purtroppo la piccolezza non è quella del corpo, ma è quella dello spirito.

Mi sposto velocemente verso l’umido e ammuffito seminterrato; lì solitamente non c’è molto traffico umano. Ci sono, infatti, solo i vecchi bagni e una macchinetta del caffé obsoleta.

Questa è stata dimenticata dai più, viene utilizzata solo dai secchioni, che non vogliono perdere il loro tempo prezioso per percorrere i due piani che separano l’aula studio dalla nuova e fantascientifica macchinetta, e dai pigri che, di fare delle scale per un caffé, non ne hanno proprio voglia. Ho notato che spesso, però, le due categorie si equivalgono.

Sono appostato nello spazio migliore, le finestrelle basse sono ricoperte di una carta adesiva che non permetterebbe di vedere all’interno, se qualcuno non si fosse preso la briga di staccarne un angolino, giusto davanti alle scale e sopra la macchinetta del caffé.

Ecco, sta arrivando una ragazza. Ha proprio la faccia assonnata di chi la sera prima ha puntato troppo sulla propria prestanza fisica, facendo chissà cosa. Forse è uscita con il fidanzato, hanno guardato le stelle godendosi la prima sera primaverile, o forse ha trovato qualcuno con cui condividere una fugace notte d’amore, o magari ha semplicemente studiato l’ultimo testo per l’esame di oggi.

Ma qualsiasi cosa abbia fatto ieri, ora si muove lenta e non si accorge di nulla attorno a lei, l’unica cosa che agogna è un caffé, nella speranza possa risollevare la sua giornata e le sue occhiaie.

Arriva alla macchinetta, cerca nelle tasche delle monetine disperse tra forcine e pezzettini di carta, dimenticati in quei meandri da troppo tempo.

Finalmente le ha trovate. Con dei movimenti lenti della mano le infila nella fessura, una dopo l’altra, quasi stesse sgranando un rosario. Schiaccia un tasto: caffé doppio. Rimane ferma a fissare un punto indistinto della macchina, si china e preleva la sua sveglia liquida, si gira e, con la flemma con cui è arrivata, risale le scale e sparisce alla mia vista.

Il primo evento di oggi si è concluso in fretta, e in lontananza non si vede nessun altro in arrivo. Se anche mi guardo intorno, non c’è nulla da osservare, né sul marciapiede di fronte, né sulle scale antincendio che danno su questo cortile; non c’è nulla di umano da osservare, perché gli alberi stanno fiorendo, i boccioli sono già usciti dai rami e stanno per schiudersi.

Mi piace la primavera, è tempo di rinascita, di novità ricorrenti.

Tonf!

Un colpo sordo attira la mia attenzione, e mi distrae dai pensieri felici che mi hanno fatto volare ad un metro da terra.

Mi volto di scatto verso la finestra. Ai piedi alla macchinetta è comparso un telefono, deve essere caduto a qualcuno lungo la tromba delle scale e, dopo qualche rimbalzo, è finito proprio qui. Un ragazzino magro e abbronzato scende i gradini a due a due, si ferma e raccoglie delicatamente, con aria sconsolata, tutti i pezzi del telefono. Lo rimette in sesto e prova ad accenderlo, niente, toglie e rimette la batteria, niente, lo fissa per provare la potenza del suo pensiero sugli apparecchi elettronici, niente.

Mette in tasca i resti di quello che, fino a poco prima, era stato un oggetto utile, e per consolarsi prende un caffé: macchiato con cioccolato.

Ora che ha il suo bicchiere di plastica in mano sorride e beve, e io sono certo che abbia appena ripensato all’accaduto, ritenendolo un evento divertente. Di sicuro, pensare ad un cellulare che guizza lungo delle scale, quasi fosse un pesce in cerca di libertà, che rimbalza diverse volte lungo gli ostacoli come una pera matura che cade dal ramo più alto, fa decisamente ridere.

Si volta e riprende la via delle scale, cercando con gli occhi qualche amico a cui poter raccontare il primo episodio spassoso della giornata.

Ecco che deve aver incontrato qualcuno, non riesco a vederne niente se non un paio di scarpe da ginnastica ferme sul quarto gradino. Posso intuire che stiano ridendo perché alle mie orecchie giungono ovattati dei singhiozzi divertiti.

Il proprietario delle scarpe, congedatosi dall’amico, ha ripreso a scendere le scale. Rimango in attesa di veder comparire il suo volto, ma quando arriva la fine delle gambe? È un ragazzone alto alto, ma proprio alto alto.

Porta dei jeans e una polo un po’ sgualcita sull’orlo inferiore. I suoi occhi sono chiari, velati da occhiali leggeri che poggiano sul naso dritto come un fuso. Ha un’espressione convinta, che sembra però celare un’amarezza ormai conosciuta, tiene avidamente in mano il cellulare, quasi fosse il suo unico mezzo di attaccamento alla vita.

Arriva alla macchinetta e prende un caffé macchiato. Lo preleva e, senza neppure mescolarlo lo trangugia, ignaro del suo calore. Inserisce altre monete e seleziona un caffé liscio, lo prende e risale le scale.

Lo seguo, incuriosito dalla sua espressione e dai suoi modi. In tanto tempo che osservo le persone prendere il caffé, non avevo mai visto nessuno berlo senza neanche guardare nella tazzina per compiacersi del suo contenuto.

Il ragazzone si è seduto su una delle panca dell’atrio, guarda il bicchiere ancora fumante e inizia una telefonata.

“Ciao zia, è da un po’ che non ci vediamo, lo so. Non preoccuparti, sto bene, per la laurea è tutto pronto, presentazione fatta, tesi stampata. Venerdì, che avrò finito, ti accompagno a fare la spesa. Ciao ciao.”

Quindi si sta per laureare. Che bravo, mi ha dato subito l’idea di essere un ragazzo responsabile, ben piantato sulle spalle.

Appoggia il telefono sulla panca e mescola il caffé, assorto in qualche forte pensiero. È in questo luogo, in questo momento, ma sembra essere in nessun luogo, in nessun momento preciso. Sta lì, tenendo la testa china, a fissare i rivoli di vapore che escono dal suo caffé.

Un’altra telefonata.

“Ciao mamma. Scusa se sono scappato via di corsa stamattina, ma volevo essere sicuro di avere tutto pronto per giovedì. Ora sono molto più sereno, scusami se non riesco a stare tranquillo in queste situazioni, ma ho sempre paura di non essere all’altezza. Ci vediamo per cena, torno alle 18.00.”

Trangugia il caffé come se la telefonata con la madre lo abbia riempito di nuova consapevolezza, ma il suo sguardo, ora, è convintamente assente. L’amarezza precedente non c’è più, e la convinzione nell’atto è aumentata.

Si alza di scatto, scende le scale. Un altro caffé?

Scendo anch’io nel seminterrato, voglio controllare che magari non prenda una cioccolata. Invece inserisce le monete, e seleziona un altro caffé, al ginseng.

Sale le scale, arriva al piano terra, con il terzo bicchiere fra le mani, ma non si ferma, prosegue. Incuriosito lo pedino dall’esterno, seguendo il percorso chiaramente tracciato dalle scale antincendio del cortiletto interno: primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo piano.

Qui, sul pianerottolo dell’ultimo piano, non c’è quasi nessuno, solo due ragazzi che discutono, davanti ad un computer, sulla soluzione di un problema.

Il ragazzone li saluta senza farci caso e si mette a sedere su una sedia mezza rotta, si toglie lo zaino e lo appoggia con delicatezza a terra, estrae il cellulare dalla tasca e invia un sms. Non riesco a leggerne il testo, ma vedo una lacrima fugace fare capolino dai suoi occhi, lacrima lasciata però inespressa.

Si rimette il cellulare in tasca e a testa alta si avvicina alle scale antincendio dove sono appostato per non farmi vedere.

Beve l’ultimo sorso di caffé, appoggia il bicchiere a terra, apre la porta antipanico, esce con tranquillità e si siede sul parapetto.

Volo via per paura di essere calpestato, per oggi è meglio tornare al mio nido. Ma prima di riprendere la strada di casa, mi volto ancora una volta. Anche il ragazzone è volato via per paura.

Congiunturazioni

C’era una volta una principessa che viveva in un bellissimo castello. Passava le sue giornate pettinando i suoi lunghi capelli biondi, aspettando l’arrivo del suo principe azzurro: “Devo aspettare le giuste congiunture astrali”.

Molti ragazzi si erano fatti avanti in molti anni. Alla principessa non andavano mai bene, troppo alti, troppo bassi, troppo belli, troppo brutti. Continuava a rifiutare tutti i bei giovanotti che si facevano avanti per ricevere la sua mano: la luna era fuori allineamento, Saturno era troppo lontano dalla Terra.

La principessa, anno dopo anno, continuava a pettinare i suoi lunghi capelli biondi che iniziarono a diventare grigi. La sua bellezza non diminuiva, molti uomini adulti si facevano avanti sperando di essere il suo principe azzuro. Lei li rifiutava sempre: i satelliti di Giove non si vedevano a dovere, Urano era troppo scuro.

Passò molto tempo, lo splendore della principessa era appassito. Nessuno era intenzionato a chiederla in sposa.

La principessa morì aspettando le congiunture astrali perfette.

La tazza

Poco tempo fa, in una cittadina normale, di un paese normale, viveva un bambino come tanti. Il suo nome era Luigi.

Luigi adorava fare colazione, tutte le mattine si svegliava pieno di buonumore, scendeva le scale, arrivava in cucina, e si preparava la colazione: una fetta di pane, un po’ di marmellata, e tanto tanto latte al cioccolato. Ma questo latte al cioccolato Luigi non lo beveva in una tazza qualsiasi, lo beveva nella sua tazza preferita: blu a pois gialli. Le aveva dato anche un nome: Gialletta.

Gialletta aveva per Luigi un valore particolare, e anche quando andava in vacanza la portava con sé, altrimenti il latte non avrebbe saputo l’abituale sapore. Quella era la sua unica tazza.

Luigi cresceva forte e robusto, finì le elementari e iniziò ad andare alle medie, poi finì anche quelle ed arrivò alle superiori. La mattina era sempre contento di fare colazione, e tutti i giorni Gialletta lo aspettava pulita nella credenza, bella come fosse il primo giorno.

Luigi in seconda superiore andò in vacanza, e si dimenticò a casa la sua tazza. Subito fu un trauma, Luigi si sforzava di fare colazione nelle anonime tazze bianche da albergo, dove neppure si vede il livello del latte da quanto sono pallide e malate. Proseguì in questo tentativo per qualche giorno, fino a quando cioè, passeggiando per strada, non vide dentro un negozio, una tazza verde a pois rossi. Entrò e la comprò.

Quelle vacanze assunsero una nuova luce, fare colazione nella sua nuova e sgargiante tazza non aveva paragoni, mica come quelle tazze palliducce e quella vecchia tazza, dai colori fuori moda, di Gialletta. Tornato dalle vacanze Luigi sistemò, in un ripiano nascosto della credenza, la sua vecchia compagna di colazioni.

Passò quasi un anno, nel quale il nostro ragazzone si era dimenticato di tutti i momenti in cui Gialletta lo aveva accompagnato: gli esami delle elementari, quelli delle medie, le prime cotte adolescenziali, l’arrivo del cucciolo Spotty e la gamba rotta. In questo anno esisteva solo pois rossi, vivace e alla moda, comoda e robusta. Una mattina però Luigi la prese in mano, la appoggiò con delicatezza sul tavolo, ma questa andò in mille pezzi, frantumata come un pacchetto di biscotti sotto le scarpe, sbriciolata in pezzi piccoli quanto la sabbia dei Caraibi.

Luigi ci rimase male dapprima ma, dopo pochi secondi di meditazione, si ricordò di Gialletta; in fondo, in questo momento, poteva ancora fare al caso suo. Si arrampicò sulla credenza per arrivare al ripiano fuori mano in cui l’aveva nascosta. Allungò il braccio, ma non trovò nulla; provò nel ripiano più in là, ma non c’era; cercò ovunque, ma non c’era.

In quel momento Luigi si ricordò di cosa aveva vissuto con quella tazza, quanti momenti felici o difficili o tristi, ma tutti momenti importanti. E ora Gialletta non c’era più, persa in un armadio per una tazza sconosciuta.

La città violentata

Ti svegli la mattina e vedi l’acqua che continua a scendere, sono ormai tre giorni che piove.
Il vento è caldo, nonostante sia ormai novembre, e la neve caduta abbondante sulle montagne si sta sciogliendo.

A pranzo continua a piovere. Inizi a sentire le sirene dei Vigili del fuoco, partono dalla vicina caserma, per liberare sottopassi dall’acqua, per mettere in sicurezza strade, per iniziare a sfollare le persone.

Nel pomeriggio ti affacci alla finestra per fumare una sigaretta. Dove prima c’erano la strada di casa, le aiuole con le panchine, le macchine, ora c’è una distesa di acqua marrone che ha sommerso tutto, unici ormeggi visibili sono rimasti i cartelli stradali.

E allora inizi a pensare alla tua città, a quello che potrebbe succederle, a quello che sta già succedendo a te e a molti altri toui concittadini, ai quali non hai magari mai parlato, ai quali l’altro ieri hai suonato il campanello imbestialito perché avevano parcheggiato la macchina nel tuo posto riservato.
Ma adesso pensi a loro e a tutti quelli che stanno perdendo dei ricordi, la casa, la macchina.

Ma non è la perdita di cose materiali che ti fa scendere una lacrima, è la sensazione che il nido nel quale sei sempre cresciuto in realtà sia fragile.
Ed è fragile perché, nonostante tu non te ne sia mai accorto, è costruito su una rete di fiumi e canali. Sei ponti e due fiumi devi passare per arrivare in centro città, ma non ci avevi mai fatto caso prima di adesso.

Con l’aiuto di tutti, vecchi e giovani, italiani e stranieri, bianchi e neri si ripulisce dal fango la città, si sistemano le strade, si svuotano le cantine, si ricostruiscono le case.
Si guardano le foto della tragedia sperando che ormai sia lontana, e si riconoscono i luoghi della vita immersi nel fango, il centro cittadino diventato una palude nella quale si sono abbandonate le biciclette per far posto ai gommoni, persone sempre viste e mai conosciute che temono per loro.
La città è stata ormai ripulita dal fango.

Il fango che ha sporcato la sicurezza di tutti, quello non si toglie.
Ora, a distanza di mesi, ogni volta che piove intensamente, accendi la televisione per captare se sta succedendo di nuovo, guardi il sito del comune per comprendere se c’è l’allerta esondazione. E anche senza trovare queste informazioni, scendi in garage a prendere la pala e telefoni agli amici per capire se dovrai vedere ancora una volta la tua città violentata dall’acqua.

Nebbia

Lelio non sapeva che strada scegliere, non si ricordava più come fosse la cartina che aveva guardato la mattina, prima di partire.

C’era o non c’era questo bivio? Se avessi guardato più attentamente quella cartina, ora lo saprei!

Il bivio che Lelio si trovava di fronte non aveva alcuna indicazione e, perdi più, la nebbia copriva tutto. Bianca e fredda uniformava il paesaggio, quasi fosse una profondità marina. Ormai era pomeriggio inoltrato, stava iniziando a diventare buio: le cose che il nostro pellegrino riusciva a distingere, in quel niente, diminuivano.

Questa nebbia mi sta bagnando il soprabito, e pizzica pure il naso, e copre tutto, ed è fredda. Non si vede molto, ma se provassi a strizzare gli occhi? Se strizzassi gli occhi… uguale a prima. Pazienza, vano tentativo, vorrà dire che sceglierò la strada in base al poco che riesco a vedere.
Allora. A sinistra ci sono degli alberi, ora sono un po’ spogli, ma in primavera devono essere il rifugio perfetto dalla calura, con le loro foglie vive che si muovono al vento, proiettando un’ombra salvifica a terra. Il sentiero sembra battuto meglio, farò meno fatica, e magari troverò anche un buon fattore pronto ad accogliermi per una notte.
A destra ci sono solo dei cespugli, o forse sono dei rovi, non riesco a capire bene. Certo è che non promettono molto di buono, se non delle rare more selvatiche, in un periodo imprecisato dell’anno, che certo non è questo. Come farei a camminare in mezzo a tutte quelle spine?
Meglio andare a sinistra, la strada sarà di sicuro migliore.

Lelio si incamminò, sicuro della sua scelta, lungo la via di sinistra.
Camminò e camminò, ma la strada iniziò a farsi difficile: stretta, invasa dalle sterpaglie, che resero impreciso l’incedere di un passo ormai stanco.
Lelio continuò, sicuro della scelta.

Se questa via, che era la migliore fra le due, è così, figuriamoci l’altra. Tieni duro Lelio, tra poco arriverai e, se non arriverai, potrai almeno chiedere ospitalità, di certo ci sarà una contrada fra non molto.

Camminò ancora, nella nebbia sempre più fitta. Ora Lelio vedeva il movimento pesante dei propri piedi muovere in moti circolari l’aria bianca e densa. La luce fioca illuminava un breve cono di farina avanti a sé.

Camminò e camminò fino a notte inoltrata. Il suo stomaco brontolava, vuoto da troppo tempo. I suoi piedi bollivano, in viaggio da troppe ore. Le ciglia umide, protezione degli occhi ormai assonnati. Non poteva fermarsi, non aveva nulla per ripararsi, in una notte d’inverno, dalla nebbia e dal freddo. Continuò a camminare.

Chissà mai se arriverò da qualche parte. Qui mi sembra di camminare senza andare avanti, sempre i soliti scarponi, sempre le solite erbacce, sempre il solito sentiero sotto i piedi, sempre la solita lucina e sempre il solito bianco, più bianco e ancora bianco.

Appena pensò questo sentì il latrare di un cane. Era salvo, un cane poteva decidere di uscire con quel tempo solo se vicino avesse avuto una calda cuccia ad aspettarlo.
Lelio affrettò il passo, arrivò presto in una contrada. Doveva essere ormai tardi perché le luci erano spente, solo un lumicino si intravvedeva dalla finestrella della casetta accanto alla stalla.

Proverò a bussare, forse lì c’è qualcuno sveglio.

“Salve, mi scusi, credo di essermi perso e non ho con me nulla. Come? Oh, la ringrazio, sarebbe splendido.”

Lelio era appena stato accolto da un vecchio ingobbito e grinzoso, i cui occhi però brillavano scuri come bottoni, segno evidente di una vecchiaia solo corporea.
Un piatto di minestra, un bicchiere di vino rosso e molte chiacchiere.

Prima di andare a letto il vecchio chiese a Lelio: “Come mai hai scelto la strada più difficile per salire?”

“Strada più difficile? Ero certo che fosse la più semplice: quegli alberi sicuri, anche se spogli, e la larghezza del sentiero. Pareva molto più tranquilla dell’altra, piena di rovi che invadevano la via.”

“Ricorda che la nebbia nasconde la vertià delle cose.”

Gli occhiali

Girando per la sua città, Marcello vedeva un sacco di cose che non gli piacevano: c’erano uomini viola che incutevano paura, uomini celesti e piccolini che erano velocissimi a rubare ai passanti, per non parlare degli uomini verdi famosissimi spacciatori di droga.

Marcello era un ragazzino di 13 anni e, data la sua età, iniziava a scorrazzare in bicicletta lungo stradelle e vicoli che non aveva mai percorso prima, con mamma e papà.
Era per questo che aveva cominciato ad incontrare di persona questi strani personaggi. Quando ne vedeva uno, iniziava a pedalare il più velocemente possibile per scappare.
Dopo un po’ di mesi però, prima di scappare via, stava ad osservarli, coprendosi il viso con la sciarpa ed il berretto, in modo che fossero visibili solamente gli occhi, per non essere riconosciuto da nessuno.
Finché li osservava, scrutandoli dalla testa ai piedi, pensava ad un mucchio di cose cattive, come: “Questo sporco uomo viola non mi fa più paura, anche se è diverso”, oppure “Gli uomini celesti sono delle pulci che succhiano il nostro sangue”. Aveva sentito talmente tante storie sul loro conto, che conosceva le abitudini delinquenti alla perfezione.

I mesi passavano così, tra una biciclettata e l’altra, e l’odio di Marcello diventava sempre più grande. Un giorno però, accadde una cosa imprevista: Marcello cadde dalla bicicletta, in uno dei vicoli più bui e stretti, la bici si distrusse e lui si fece anche molto male.
Finché era a terra dolorante, vide un paio di piedi avvicinarsi a lui, non aveva il coraggio di alzare la testa per capire a chi appartenessero. Allora frugò nella tasca per cercare un’arma con la quale difendersi, ma non trovò altro che una merendina spiaccicata.

I piedi erano sempre pi vicini, e il loro proprietario si stava piegando su di lui.
Voleva ucciderlo? Rapinarlo? Picchiarlo?
Che paura aveva Marcello, non sapeva proprio che fare, anche perché, cadendo aveva perso gli occhiali.

Un attimo, ma perché Marcello riusciva a vedere se non aveva più gli occhiali?

Bella domanda. Anche lui, nonostante il panico si stesse diffondendo in tutto il suo corpo, si domandò proprio questo.
Iniziò a pensare a come vedeva, o non vedeva, di solito senza occhiali. Ma non gli venne in mente niente, infatti, non se li era proprio mai tolti. I suoi genitori non glielo permettevano, perché gli si sarebbero rovinati gli occhi.

Preso dalla curiosità, si fece forza ed alzò la testa verso la figura che, ormai, era china su di lui e, senza pensarci, disse velocemente:

«Ma tu chi sei? Mi vuoi uccidere? Prendi tutto quello che vuoi da me, ma non farmi del male, in tasca ho una merendina squisita.»

«Ucciderti? Scipparti? Ma no! Voglio solo capire se ti sei fatto male.»

Marcello si era dimenticato, in quegli istanti, il motivo del suo essere per terra, quindi rispose:

«Oh, grazie. No, no, non mi sono fatto molto male, ma la mia bicicletta non funzionerà più!»

«Non preoccuparti, se vuoi, nel mio garage ho tutto il necessario per ripararla.»

«Ma la mamma non vuole che io dia retta agli sconosciuti. Per di più in un quartiere del genere. Sai, ci sono gli uomini celesti che sono dei delinquenti, per non parlare di quelli verdi.»

«Uomini verdi? Uomini celesti? Ahahahah, sì sì, ho già sentito questa cosa. L’ho sentita quando sono sceso in città, poche settimane fa. Una signora mi ha dato del celeste, guardandomi!»

«Ma perché lo ha detto a te? Tu non sei mica celeste!»

«Già, ma secondo me questa signora non ci vedeva tanto bene, portava degli strani occhiali.»

La conversazione si esaurì così, lo sconosciuto aiutò Marcello a rialzarsi, raccolse la bici da terra e poi vide gli occhiali rotti.

«Sai, gli occhiali di quella signora, erano proprio come questi!»

Rubino

Rubino era un uccellino, e poiché era tutto rosso, la mamma lo chiamo così. Era ancora molto giovane e viveva nel nido con mamma e papà, che svolazzavano velocissimi per acchiappare al volo i moscerini, la loro cena preferita.

Per Rubino i giorni passavano lenti, si annoiava a stare sempre fermo dentro quel nido piccolo piccolo, e non vedeva l’ora di imparare a volare, voleva esplorare il mondo di cui aveva solo sentito parlare. “Sei troppo piccolo ancora, devi aspettare qualche anno prima di potere volare.” gli dicevano tutti, ma lui non voleva saperne.

Una mattina, quando mamma e papà erano fuori, Rubino saltò forte oltre le pareti del nido e … splat! Cadde a terra, le sue ali non si aprirono. Senza farsi perdere d’animo, decise di iniziare la sua avventura a piedi: attraversò un cortile, arrivò ad un fiume e lì si fermò perché non sarebbe riuscito a oltrepassarlo senza saper volare.

Passò di lì una cicogna. Con quelle ali lunghe e snelle a Rubino sembrava l’uccello più elegante che ci fosse.
“Cosa ci fa un uccellino così piccolo, tutto solo, davanti ad un fiume?”,chiese la cicogna.
“Ho deciso di imparare a volare per esplorare il mondo; e voglio passare questo fiume per continuare la mia avventura!” le rispose Rubino.
“Ma non puoi imparare a volare dal nulla. Sai correre sulle tue zampette fragili?”.
“Correre? No, ma cosa vuol dire?”, rispose perplesso il nostro uccellino che non aveva mai udito una simile parola.
“Correre vuol dire camminare velocissimi, e non puoi imparare a volare se prima non sai correre.” La cicogna, molto pazientemente, gli insegnò a correre.
“Ora posso volare!”, disse Rubino alla cicogna.
“Non puoi volare, sai semplicemente correre, per volare ci vuole dell’altro. Ora però devo tornare nel mio nido, se vuoi ti do un passaggio al di là del fiume sulle mie ali.”
Rubino riuscì così a proseguire la sua avventura, ma proprio non capiva perché non potesse ancora volare.

Camminò e corse per moltissimi giorni ancora, fino a quando non arrivò ad uno strapiombo impressionante. Era così ripido e così alto che solo a guardare giù venivano le vertigini. Rubino non poteva superare quell’ostacolo né camminando, né correndo.

Rimase seduto, all’ombra di un albero poco distante, cercando di escogitare un piano. Ad un tratto comparve un colombo, a Rubino non piaceva molto perché aveva il corpo tozzo, ma doveva essere un volatore instancabile.
“Salve! Mi insegna a volare?”, gli chiese Rubino.
“A volare? Intanto, sai correre?”
“Sì, sì, la signora cicogna me lo ha insegnato molti mesi fa, e io, da bravo alunno, continuo ad esercitarmi.”, rispose Rubino tutto orgoglioso.
“E sai muovere la coda in questo modo?”. Il colombo si cimentò in movimenti che Rubino non aveva neanche mai visto: la coda in su con tutte le penne allargate, in basso con le penne strette, e viceversa. “Devi allenarti in questi movimenti, altrimenti non imparerai mai a volare! Ora ti saluto perché devo continuare la mia migrazione.”

Rubino si impegnò molto nei nuovi movimenti, ma erano proprio difficili per un uccellino piccolo come lui. Passarono dei mesi prima che riuscisse a fare tutto per bene. Nel frattempo continuò a camminare esplorando il mondo.

Una sera arrivò al limitare di un campo di erbacce, talmente alte e intricate, che non sarebbe mai riuscito ad attraversarlo a piedi, ma solo volando. Rubino però, dopo quasi 2 anni, non lo sapeva ancora fare.

“Tru tru, tru tru.”. Era il verso di una civetta che alloggiava poco distante dal campo.
“Signora civetta”, chiamò Rubino, “mi insegna a volare per favore? Non mi dica anche lei che devo imparare a fare altre mille cose, la prego!”
La civetta girò la testa e vide l’uccellino che la chiamava. “Ma cosa fai in giro, di notte, tutto solo e così piccolo?”
Rubino le raccontò la storia da principio e le disse anche dell’incontro con la cicogna e il colombo.
“Hanno fatto bene, sono stati dei bravi maestri. Puoi chiederlo a qualsiasi uccello, di qualsiasi specie e grandezza, ti risponderà sempre che per saper volare si deve prima imparare a correre, poi a muovere la coda. Ora sei abbastanza grande ed esperto per imparare a volare, quindi ti insegnerò molto volentieri”.

La civetta ci mise molto tempo a spiegare tutte le tecniche di volo a Rubino, e lui ci mise molto tempo per diventare un bravo volatore: cadeva, volava solo verso destra o solo verso sinistra, non riusciva a prendere quota, o saliva troppo in alto, e mille altri di questi imprevisti.

Alla fine degli sforzi imparò. Ringraziò la civetta e proseguì la sua avventura.

Il cancello

Eccolo eccolo, è arrivato!!!

La curiosità iniziò a spargersi in tutta la grande casa colonica e, come in un formicaio, nonni genitori figli, domestici e fattori, si mossero in un’unica direzione con passi brevi ma veloci.

Brillante in giardino, ancorato a due solide colonne di mattoni rossi, sbarrava la via a chi avesse voluto introdursi nel viale senza permesso.

Era un cancello di ferro battuto di dimensioni abbastanza imponenti, era grande ma non incuteva timore.
Era stato creato da un artigiano ormai in là con gli anni che, con la sua esperienza, riusciva a intrecciare una materia così fredda quasi fosse vimini. Purtroppo però il vigore necessario a plasmare il materiale lo stava abbandonando.

Uno dei figli del fattore corse verso il nuovo cancello, allungò la mano, lo aprì. A bocca aperta per l’emozione di quel primo gesto, gli altri spettatori osservavano in silenzio. L’espressione di tutti cambiò in fretta: i sorrisi mutarono in smorfie, i bambini si portarono le mani alle orecchie, i cani scapparono dentro le cucce, e le galline nel pollaio svolazzarono scomporstamente calpestandosi fra loro.

Non un normale cigolio, ma un fischio acuto e sgraziato aveva rotto il silenzio.

I più pensarono bastasse dell’olio sui cardini e quindi questa soluzione fu provata molte e molte volte. Niente.

Si smontò il cancello per riportarlo dall’artigiano a far controllare. Niente.

Si abbatterono le colonne portanti e si ricostruirono di pietra. Niente.

In via eccezionale venne chiamata addirittura la vecchia strega del paese per un incantesimo. Niente.

Trascorsero anni, vennero compiuti molti tentativi, ma niente sembrava calmare il fischio. Ad ogni apertura e ad ogni chiusura del cancello chi era nei paraggi si tappava le orecchie, sperando di non udire quel rumore orribile.

Cambiò il fattore, cambiarono i domestici e i contadini. Ma il cancello non cambiò, semplicemente era stato lasciato aperto, privato dell’unica funzione per la quale era venuto al mondo. Ricoperto di edera ed erbacce era quasi invisibile.

Un pomeriggio d’inverno passò un ferrovecchio che, intravedendo fra gli stralci la forma antica di quel cancello, decise di fare la sua proposta al fattore. Lo comprò per pochi soldi, lo smontò e lo caricò sul suo carro.

Il ferrovecchio si muoveva in continuazione da una città all’altra e non si fermava dove iniziava a sentir parlare un’altra lingua, percorreva migliaia di chilometri seduto sul suo carretto ricoperto di cianfrusaglie e vecchi arnesi. Arrivò addirittura dove gli uomini hanno gli occhi stretti e lunghi. E proprio lì decise che era ora di sbarazzarsi di quel cancello così ingombrante.

Un vecchietto molto ricco comprò quel cancello dalla foggia esotica, lo fece montare alle porte della sua dimora fastosa. Durante le sue abituali passeggiate in giardino, oltre a contemplare la bellezza della natura, contemplava quel magnifico cancello; ma sapeva bene che la natura, così perfetta e autonoma, non poteva essere eguagliata da un pezzo, per quanto bello, di ferro. E si meravigliava quindi di vedere che tutti, oltre a lui, erano talmente profani, da prostrarsi a terra col capo fra le mani ogni qual volta vedevano il cancello in movimento.

Da quando aveva perso l’udito, infatti, il vecchietto non capiva più molte cose.